This is the end, beautiful friend

Finito di pubblicare i post che stanno nell’ebook in due volumi che si chiama Cronache di una sorte annunciata. Finito di pubblicare gli inediti e i making of. Finito di leggerlo in pubblico, l’ebook, anche se, forse, come progettato, dovremmo leggerlo tutti i venerdì 17 della Storia. Vedremo.

Cronache di una sorte annunciata, il blog, si ferma qui e si congela. Diventa un eterno monumento alla Sfiga, al terzo terzo di questo 2010 agli sgoccioli. Rimane qui, a eterna memoria di chi ha partecipato e di chi non ha fatto in tempo a partecipare. Ed è la prima volta che chiudo un blog senza vergognarmi di tutto quello che ci sta dentro.

A nome di tutto lo staff di Barabba: grazie.

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Storia di un passero

di Vincenzo Prencipe “khenzo”

C’era una volta un bambino, Mané si chiamava. Mané adorava i passeri. Mané amava anche il calcio, come era naturale per tutti i bambini di quel paese. Quando non lo trovavi ad impolverasi sui campetti di periferia, Mané era lì, ai margini della foresta, a guardare e ascoltare quella miriade pennuta, multicolore e allegra. Dalla foresta Manè aveva ereditato nel corpo la geografia impervia. Mané era storto, sghembo, curvo e frastagliato come poteva esserlo solo un torrente improvvisato, uno di quei rivoli impetuosi che animano il fitto della vegetazione durante la stagione delle piogge. Come un sentiero di montagna, la sua colonna vertebrale si arrampicava sull’esile corpicino dalla testa troppo grande, disegnando andirivieni panoramici dove i turisti si sarebbero potuti fermare a fare foto. Le gambe di Mané, poi, erano un atto di fede. Ogni osso era affetto da una malattia diversa, di quelle che a metterne i nomi vicino si rischia una gran confusione nella testa e le sue ginocchia imboccavano direzioni diverse disegnando nell’aria angoli incomprensibili. Quel corpo dalla geometria strana segnava un ampio scompenso di lunghezza tra la gamba destra e la sinistra, come se al Creatore fosse finita la materia per completare l’opera. Forse quegli arti volevano essere un omaggio ai burattini del teatro delle marionette che ogni domenica alzava il sipario nel piccolo sobborgo dove il ragazzino abitava. Mané ricalcava le fattezze di uno di quei buffi pezzi di legno, arruffati e malvestiti, il brutto e povero tesoro di una piccola compagnia di artisti di strada.
La sorella di Mané, che gli voleva molto bene, lo chiamava “scricciolo” a causa di quella corporatura minuta e della camminata veloce e sbilenca.

* * *

Un giorno di marzo, Mané, come tutti i giovedì, si trovò a raccattare palloni e bestemmie agli allenamenti della squadra cittadina che era impegnata nel campionato nazionale. Il caso volle che quel giorno, a causa di una febbre che aveva preso molti della panchina, Mané fosse chiamato a giocare una partitella contro i campioni. Entusiasta e impaurito, Mané si lanciò con fervore in quella inaspettata avventura. Quando i dirigenti della squadra videro sgambettare il ragazzino, quasi non crederono che quello scherzo della natura stesse calpestando la terra benedetta di un campo da calcio. Gli adulti, per farsi due risate prima di andare a tracannare un goccio al bar, improvvisarono Mané nel ruolo di ala destra. Dopo un attimo di confusione, lo sguardo un po’ strabico di Mané incrociò il cielo degli occhi di Nilton Santos, detto Enciclopedia, il più grande terzino sinistro di tutti i tempi. Fu in quel preciso istante, su quello stretto spazio di mondo delimitato da una linea bianca, che la vita di Mané cambiò per sempre.
Il racconto di quello che successe quel giorno impregna ancora, insieme al fumo di sigaretta e all’odore di moscato, l’aria e le pareti dei bar sport di tutto il mondo. Leggenda vuole che Mané, in quell’occasione, rifilasse a Nilton Santos, nell’ordine, due dribbling, uno a destra e uno a sinistra, un tunnel, un colpo di tacco a scavalcare e un sombrero. Si dice anche che Nilton Santos, infuocato dalla rabbia, prima cercò di rompere qualche osso al piccolo fenomeno poi, non riuscendo ad agguantarlo, convinse i dirigenti della squadra a tesserarlo.
Quello che avvenne dopo, invece, è storia documentata. Partita dopo partita, ad ogni passaggio di Mané lungo quella retta disegnata in bianco, andavano affastellandosi le carcasse degli avversari buttati lì come fossero ciocchi di legna da ardere in inverno. Imbattibile nei cross, insuperabile nel dribbling, con cieco coraggio Mané affrontava indomito ogni avversario. Più erano grossi e cattivi, più Mané provava gusto nel trovare modi sempre diversi per metterli in ridicolo. In poco tempo Mané divenne l’idolo della squadra finendo così in nazionale, dove subito fu innalzato a beniamino di tutti i tifosi. Alegria do Povo, Gioia del Popolo, lo chiamavano nella lingua di quel paese.

* * *

Un giorno, di quelli che tutti immaginano col cielo plumbeo e il vento freddo a spazzare il manto erboso, durante una delle tante partite disputate da Mané con la nazionale, avvenne qualcosa che lasciò di stucco tutto lo stadio. Di quello che successe ci sono gli schizzi fatti a mano dal decano di ogni bar sport appesi sopra il bancone e la storia si tramanda a voce di padre in figlio.
Si racconta che sul punteggio di tre a zero, Mané, in un’impetuosa discesa sulla fascia, accentrandosi verso l’area di rigore, saltò prima con facilità l’arcigno e corpulento terzino centrale, tale Robotti, rimbambì poi con una finta il portiere e, una volta solitario al cospetto della porta, invece di mettere la palla nel sacco, aspettò il ritorno del difensore, lo dribblò nuovamente e, solo dopo averlo messo a sedere, dopo una fragorosa risata, infilò la rete. Robotti, parecchio irritato da quel gesto, poco più tardi, in uno scontro di gioco cercato e voluto come un goal, entrò duro sul povero Mané che si piegò sotto il colpo come un ramo di palma sotto lo scroscio di una tempesta tropicale. Mané fu costretto così ad abbandonare il capo in barella. Frattura scomposta di tibia e perone della gamba destra e lacerazione del tendine di Achille, recitò poi il referto medico.
Quello che successe dopo, nessuno, nemmeno il più ubriaco del bar sport, vuole mai raccontarlo e son pochi quelli che conoscono la fine della storia, quella vera.
L’unico dato certo è che Mané non tornò mai più a giocare a calcio. Di lui si persero le tracce in una domenica di primavera, quando gli amici lo videro incamminarsi vero il chiosco dello stadio per prendere un panino e non fece più ritorno.

* * *

La storia più credibile sulla fine di Mané é quella riportata nelle memorie dall’allenatore Peregrino Fernández. Fernández, assiduo frequentatore di bettole e gran giocatore di carte, racconta di un venerdì pomeriggio passato in una taverna del porto dove un marinaio scuro e alticcio cianciava delle stranezze di un uomo imbarcato sulla sua nave, un mozzo sbattuto e sempre ubriaco pure lui. Quell’uomo, mai visto prima, che nel mare ci sembrava stare a suo agio come un gatto nella vasca da bagno, passava il tempo libero guardando i gabbiani azzuffarsi a poppa e a sera, quando tutti si ritrovavano sotto coperta a bere e il mare si faceva mosso, amava gettarsi sul ponte principale, illuminato solo dalla luna, con il pallone sgonfio e rattoppato tra i piedi, a dribblare paranchi, canapi e fantasmi. Una di quelle notti, il marinaio raccontava, con il mare grosso e la ciurma ubriaca, il capitano, incuriosito da quell’uomo che consumava le assi del ponte con quel suo inutile andirivieni, chiese il perché di quell’ esercizio notturno e il mozzo, con gli occhi fissi appena sotto il cappello del graduato rispose: “Chi nasce nella sfortuna impara in sacco di cose tranne che a far fronte ad un’improvvisa fortuna. Così, col mare alto che culla il mio pensiero, vado alla ricerca della perduta sfortuna, di quelle due gambe dispari che Iddio mi aveva regalato e che la medicina e l’insistenza dell’uomo ha restituito alla normale parità e alla mia disperazione. Su questa nave prendo in giro la fortuna che mi ha restituito al mondo dei sani e anche se non ci sono applausi a sostenermi, quando l’onda scende a sinistra, io scarto a destra e torno felice. Sono su questa nave a rifiutare la sorte. La prego, non mi faccia scendere mai più.”.

Fine

___________

Manuel “Mané” Francisco dos Santos, meglio noto con lo pseudonimo di Garrincha, che nella lingua del suo paese, il Brasile, vuol dire “scricciolo”, morì a Rio de Janeiro nel 1983 a causa di una cirrosi epatica dovuta alla sua passione per gli alcolici. Vinse con la sua nazionale due campionati del mondo. Questa storia è liberamente ispirata alla sua vita. Alcune cose son vere, altre verosimili, molte inventate.
Le Memorie del Mister Peregrino Fernández, invece, sono un racconto si Osvaldo Soriano. La citazione è un umile omaggio a quell’impareggiabile narratore di cose di vita e pallone.
Questo scritto era stato pensato per comparire nella raccolta di racconti Cronache di una sorte annunciata ma poi niente, me l’ha mangiato il cane.
Ora il cane è morto, pace all’anima sua, e me l’ha restituito.

[I love Quentin]

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Giovani sfighe e giovani aguglie (making of)

di Pino Zennaro “Thuna”

questo è il making of del mio contributo a “Cronache di una sorte annunciata”. Se volete leggere la storiella completa, la trovate qui.

[Thunalab]

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È sempre colpa della Kamchatka

di Simone Marchetti “Chettimar”

Ci sono due tipi di giocatori di Risiko: quelli per cui è un gioco di pura fortuna e quelli per cui è un gioco di abilità in cui, incidentalmente, c’è una certa qual componente infinitesimale dettata dalla casualità del lancio dei dadi, per niente determinante sull’esito finale delle partite.

Il secondo tipo di giocatore mente.

Innanzitutto perché la differenza fra le abilità dei giocatori tende rapidamente a zero, a meno che non stiate giocando contro dei lemuri a cui capitano obiettivi come “Conquistare la totalità del Nord America e dell’Africa” e mettono trentotto carretti in Australia Occidentale. Poi, soprattutto, perché se tiri una fila di 1 puoi anche essere von Clausewitz reincarnato in terra ma non vinci mai, neanche per sbaglio, caso fortuito o intervento divino.

Fra i più fieri rappresentanti del secondo tipo di giocatore di Risiko c’è il mio amico Cremonesi. Cremonesi è portatore sano di una sterminata serie di fisime, tra cui: giocare solo coi carretti viola, tirare solo dadi viola, portarsi i dadi viola da casa, conservare i dadi viola in una teca di cristallo al 35% di umidità per mantenerne intatte le proprietà aerodinamiche. Tale sfoggio di scaramanzia si traduce in un culo abnorme nel lancio dei dadi e in strisce positive di vittorie durate quadrimestri. La posterità ricorderà la sua leggenda grazie ad alcune favorevoli combinazioni che gli abbiamo intitolato:

– Cremonesi Regular (6-5-4);
– Cremonesi Large (6-5-5);
– Cremonesi Extreme (6-6-5).

(C’è anche il Cremonesi Diabolicus (6-6-6), uscito solo due volte nella storia. Indovinate contro chi lo ha tirato. Entrambe le volte.)

A chi gli fa sommessamente notare che a vincere tirando infornate di 6 son buoni tutti, la risposta standard di Cremonesi è una supercazzola di venti minuti in cui spiega il perché la sua vittoria sia stata frutto di una calcolata e sagace strategia comprendente mosse, contromosse, mosse ipotetiche, mosse pensate, mosse scartate, finte, controfinte e, come gran finale, un attacco alla Kamchatka. Anche se deve conquistare il Sud America.

Il mio amico Giorgio, invece, è consapevole che si tratti essenzialmente di fortuna e ha inventato un sistema, a suo dire, infallibile per piegarla a suo vantaggio. Quando deve tirare un dado solo, per scegliere quale dei tre a sua disposizione lanciare, “fa le primarie”. Tira tre dadi e sceglie per il lancio effettivo quello col risultato minore “perché il numero basso l’ha già fatto e adesso ne esce uno alto”. Certo, ci sarebbe quella piccola questione statistica degli eventi non correlati, ma glissiamo. Giorgio ovviamente non vince mai, però con tutti questi lanci aggiuntivi le partite, quando gioca lui, durano il quadruplo.

Renato ha un approccio diverso. A parte il fatto che nove volte su dieci si rompe le balle a metà partita e si suicida (celebri i suoi attacchi “due carretti contro ottantaquattro”), lui prima di ogni lancio fa intensi motivational speech ai suoi dadi, infonde loro fiducia, “dai che adesso facciamo un bel lancio”. Una volta porta la fidanzata, detta “la pianta grassa” per la verve e la innata simpatia espressa in ogni suo gesto (tipica, appunto, del Cactus Puntuto della Val Rendena). Si mettono a giocare in coppia: lui decide le mosse, lei tira i dadi. Un disastro di proporzioni bibliche. Una fila di 2-2-1, 2-2-2, 3-2-2 quando va di lusso. Al quattordicesimo lancio Renato sbotta: “Ma cosa ci vuole a fare un lancio di dadi decente?”, ribellandosi alla cinica dittatura della (mala)sorte in un impeto di razionalismo cartesiano. Le strappa i dadi di mano, li carica con parole fulminee e ispirate, li getta sulla plancia con abile rotazione del polso, i dadi fluttuano in aria come frecce di pars construens, rimbalzano, si girano, atterrano, emettono un unico, coeso, ferale responso: 1-1-1.

Renato e la fidanzata si sono lasciati dopo due settimane.

Per quanto mi riguarda, i miei scarsissimi risultati a Risiko sono una delle mille declinazioni della mia epocale sfortuna al gioco (qualche anno fa c’era un Milan-Juve decisivo per lo scudetto e puntai 5 euro sull’1X dicendo “vabbè, vincerà il Milan ma almeno mi pago due birre”: 0-1, gol di Trezeguet su assist in rovesciata volante di Del Piero). L’unica volta che mi ricordo di aver vinto era una serata orribile, mi avevano fatto una multa, mi ero stortato una caviglia, avevo litigato con la fidanzata e avevano sbagliato a consegnarmi la pizza. Sono andato a giocare incazzato come una belva, con l’occhio della tigre, al grido di “io adesso vinco”. Trovo l’obiettivo più facile. Faccio lanci di dadi perfetti, precisi, clinici, senza sprecare un 6-4-3 contro un 2-2-2. I territori cadono nelle mie mani come neanche la Polonia nel ‘39. Ho vinto in ventidue minuti netti. Sono tornato a casa con l’esatta, titanica consapevolezza di poter schiacciare la sorte sotto ai miei piedi, sancendo il trionfo della convinzione e della volontà sulla cinica ruota del destino.

La partita dopo mi hanno eliminato al terzo turno.

[Chettimar]

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Questa è la storia del ragioniere Panunzio

di Anonimo

Questa è la storia del ragioniere Panunzio, MTR. 853017. Sin da pargolo il Panunzio dimostrò un’indole rispettosa e un carattere docile; studente modello prima e lavoratore integerrimo poi, si prodigò per avere una vita perfetta.
Lavorò per 40 anni 10 ore al giorno tutti i giorni dell’anno per garantire alla sua splendida famiglia un futuro dignitoso. Ogni giorno passava su questo ponte alle 7:13 e alle 20:17, con passo svelto e sguardo assente, frettoloso di tornare alle sue sicurezze.
Visse tranquillo fino alla notte del 15 giugno 2010, quando un gruppo di ragazzini occupò lo stabile di fronte alla sua finestra; ormai anziano, si ammalò gravemente agli occhi a causa del suo lavoro. Un giorno, attratto dalla gioia proveniente dai suoi vicini, tentò di attraversare via Savona quando una volante di polizia investì il suo corpo stanco e vecchio.
Morì sul colpo.
FINE

***

(l’ho trovato e fotografato su un ponte di Milano. Anche se ora non ricordo il ponte)

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Lumaca omnia vorat

di Gabriele Malavasi “capra”

Parlerò di lumache. Prima parlerò per 16 righe del perché parlerò di lumache.

Lo Ziro e il Many fanno tipo gli editori in internet. Lo Ziro mi fa, un giorno d’estate: scrivi qualcosa per questo secondo e-book che facciamo sulla sfiga? Figo, dico. Mi è sempre piaciuto scrivere.
Poi io che sono uno che in internet non partecipa a niente, che in internet non ha nessun tipo di domicilio a parte l’email, mi son anche galvanizzato all’idea di far parte di qualcosa in internet.
Grande Ziro, una di queste sere scrivo e ti mando. La sera è quella parte della giornata che dedico al computer, generalmente per i fatti miei, lavoro arretrato a parte. Non ho un blog, non ho un sito, no facebook, anobii, friendfeed, twitter et cetera. Non credo che tutte queste mancanze mi abbiano reso una persona migliore. Nemmeno credo mi abbiano reso peggiore, ma non saprei.
Mi hanno reso una persona con un orto.
La sfiga vuole che l’orto sia preda delle lumache. Limacce per la precisione. Che sono tipo lumache ma senza il guscio. Ci sono anche quelle col guscio, ma di preferenza l’orto è invaso dalle limacce.
Quando mi mettevo davanti al computer per scrivere qualcosa per Ziro, il Many e il loro stracazzo di ebook non riuscivo a non pensare: Mentre son qua a cazzeggiare, quelle troie schifose mi stanno mangiando tutte le piantine di pomodoro. Mollavo lì e andavo nell’orto.

Io non credo che il concetto di avere un orto lo possa capire chi non ha un orto. È una sentenza stronza, me ne rendo conto. Però c’è della verità. E non parlo dell’orto dei tuoi nonni o dei tuoi genitori. Il tuo orto. È come quando ti chiedono di spiegare di cosa tratta la tua tesi di laurea: ci puoi provare, ma in fondo sai che l’altro non potrà mai capire tutte le sfaccettature di quel che hai fatto. Noi è il primo anno che abbiamo un orto serio. Serio nel senso che son più di tre mesi che non compriamo verdura – a parte un po’ di carote ogni tanto, dai. Aggiungi che sono vegetariano.
È un orto serio, dai, fidati. 64 metri quadrati. Circa. Per la precisione è un orto sinergico. Agnese ha seguito un corso, a fine primavera, sull’orto sinergico. E così abbiamo fatto un orto sinergico.
Il nome mi metteva soggezione, evocava fricchettonaggini e madre terra e ciclo della vita, ma in soldoni si tratta di fare dei cumuli di terra e ricoprire tutto di paglia. L’idea l’ha avuta Fukuoka (google: Fukuoka + orto sinergico, desumo), ma lo faceva anche mio nonno: fai i cumuli così le piante han più terra soffice dove crescere; metti la paglia così l’acqua evapora meno e innaffi meno. Poi di diverso c’è che nell’orto sinergico le piante dello stesso tipo non sono tutte attaccate ma distribuite per tutto l’orto, mischiate anche con fiori e officinali; poi, in secondo luogo, l’orto sinergico, dopo qualche anno, non lo devi più lavorare: perché lasci andare le piante in fiore e si seminano da sole; lasci le radici nella terra che la rendono friabile e non devi zappare; depositi le piante morte sul cumulo che concimano da sole. Natura spontanea.
Questo in teoria.
Io c’ho l’orto sinergico da quest’estate, e per ora, da solo, non ha fatto un benemerito cazzo. Anzi.
A un certo punto tutta quella stramaledetta paglia l’ho dovuta togliere perché sotto la paglia le lumache se la godevano anche di giorno e facevano orge spaventose (desumo) e si riproducevano a livelli enormi. Paglia di merda.

Le lumache, a livello di ecosistema, non fanno niente di male – e ci mancherebbe. Dove abbiamo creato l’orto era un campo di erba medica. Era territorio loro. Gliel’abbiamo strappato. Hanno tutti i diritti di mangiare i nostri ortaggi. E io ho un po’ di diritti nel farmi il mio orto. Quindi ambedue i contendenti hanno in parte ragione. Per questo si può parlare di lotta. Di guerra.

All’inizio non capivamo. Le piantine nuove sparivano. Così, da mane a sera. Niente più foglie.
Niente di niente che Dio le maledica. Poi, una sera, andando nell’orto verso il tramonto a sfemminare i pomodori, le abbiamo viste. (Sfemminare i pomodori significa togliere gli steli che crescono nelle ascelle degli altri steli. Se non hai capito non è grave. Agnese si lamenta. Agnese è femminista anche per le piccole cose. Dice che non si dovrebbe dire sfemminare i pomodori. Ok)

Ci siamo informati, e le abbiamo tentate tutte. Eccetto roba chimica, che ne facciamo a meno.
Cenere. Cenere attorno alle piantine. Niente. Esche lumachicide biologiche. Niente. “Metti delle assi di legno sotto a cui si rifugiano di giorno. Poi le capovolgi e le ammazzi.” Mai trovata una sotto a un’asse di legno. Trappole con la birra. Un cazzo di niente (toh, 3 lumache a trappola in una notte). Tale Ferramol (“Noi lo usiamo in campagna, spacca, son sparite”). Fuochino.
Ma bisognerebbe chiedere un prestito per riempire l’orto di Ferramol e vedere che succede. Un amico di qua vicino, che nella vita fa l’idraulico e l’elettricista, e ha lui pure un orto sinergico, ci fa: “L’unica è mettere un cono di rame attorno alle piantine. Le lumache non riescono a salire sul rame”. Sticazzi, tanto vale pagare un cecchino per il turno di notte nell’orto. In internet dice: “I rospi sono ottimi predatori di lumache”. Io più di una sera ho trovato un rospo nell’orto. Per vedere quanto è predatore di lumache ne ho presa una e gliel’ho messa a 5 centimetri dalla bocca. Niente.
Forse è timido, dico. Riprendo la lumaca su un rametto e gliel’avvicino alla bocca. Niente. Forse non ha fame. Quindi adagio la lumaca su uno dei suoi labbri, o quel che l’è. Resto a guardare. La lumaca comincia a scendere, supera il gargarozzo, percorre una zampa e torna per terra. Rospo di merda.

Va bene. Ci sto. I rimedi facili non funzionano. Allora scendo in campo in prima persona e vaffanculo. Le colgo in flagrante. Di notte. Prima con una pila in bocca. Poi, compromessa la fluidità mascellare, con una pila bloccata sulla visiera di un cappellino con un grosso elastico. Le prime notti rientravo in casa devastato. Il nostro orto non è grande. Forse è più grande del tuo, ma voglio dire: 250 e più lumache, perdìo! E sicuramente ne avevo lasciate. Al posto della schiena era come avere una di quelle cassette di legna per la frutta, di quelle perfette per accendere il fuoco.
Facevo cric, manco riuscivo a stare sdraiato. L’ho detto qualche giorno dopo a un’amica che lavora in campagna (non quella del Ferramol, un’altra), mi fa: Eh, è così lavorare in campagna. Grazie.
Poi però passa. Nel senso che alla terza sera è tutto molto più soft, finché ti accorgi di essere stato chinato due ore e stai divinamente. Paura. E spettacolo.
L’attività di raccolta lumache è una roba seria. Io poi son uno che stare un’ora a saltare da un video all’altro di youtube gli viene la manza. Raccogliere lumache no. Non mi annoia. Anzi. Mi vivifica.
Mi galvanizza. Mi transustanzia. Mi redime. Paratassi.
Perché è il tuo orto. E loro te lo distruggeranno. Arrivi ad odiarle. Ti ritrovi ad offenderle ad alta voce. Troie merdose schifose puttane. Agnese si lamenta. Dice che non sono tutte femmine. O-K-C-A-Z-Z-O

E sera dopo sera, comincio ad impratichirmi. Per questo, ora, vi do delle dritte che spaccano.

Dove mettere le lumache mentre le raccogli? All’inizio usavo sacchetti di carta. Tipo quelli della farina, che dentro non è proprio carta e loro faticavano un po’ a risalire. Risultava difficile aprire per bene il sacchetto e scagliarle dentro. Devi criccarle, le lumache, per staccarle dalle dita. E spesso il cricco le faceva capitombolare vicino all’uscita, ergo dovevo ricriccarle da dentro al sacchetto per spingerle più in basso. Ultimamente ho optato per un recipiente di plastica. Largo.
Facilmente centrabile al cricco. Che non si sfalda con l’umidità. Geniale

Che fare della lumache raccolte?
Inizialmente le uccidevo sul momento. Sembrerebbe la soluzione più facile, che funge pure da cruento monito per le lumache prossime venture. Sbagliato. Possiedono un’abnegazione indefessa; sono incrollabili anche di fronte alle carneficine più spietate. Aggiungi che uccidere una lumaca è difficile. Che fai? La schiacci con le dita? Sguiccia via come l’ultima parte del calippo. La strofini per terra col piede? S’insinua tra le falde del terreno e sopravvive. Bisognerebbe avere una superficie liscia e resistente al calpestio sempre con sé, tipo un’asse di legno, per schiacciarvele sopra. Proibitivo. Io ho due galline. Do le lumache alle galline. Capovolgo il suddetto contenitore di plastica sopra ad una grossa piastrella dirimpetto al pollaio. Vi posiziono sopra un mattone per sigillare le uscite e alla mattina scoperchio. La velocità con cui le galline divorano il centinaio di lumache è un’esperienza tipo un rapporto sessuale di 6 secondi. Che godi, certo, però…

Se una lumaca ti cade quando l’hai agguantata è questione d’onore ritrovarla (spesso di aggrappano a foglie sottostanti. Altre volte le recuperi a terra).
Un giorno una coppia di amici ha trovato dietro casa nostra una lumaca veramente enorme per i miei standard. L’ho raccolta con un ramo e l’ho gettata nel recinto delle galline. Se la sono litigata.
A vederle mangiarsela mi è venuto quasi il vomito.

Voi avete mai sentito il bramito dei cervi o dei caprioli? È tipo l’urlo del cane di Satana. Una sera stavo slumacando e a 10 metri dalle mie spalle un capriolo che non avevo sentito avvicinarsi ha bramito fortissimo. Son stato in ansia per un’ora.

Cose da sfatare sulle lumache:

  1. le lumache prediligono le foglie basse, vicino alla terra. No. Trovi lumache enormi su steli altissimi esili come un filo scucito.
  2. Le lumache sono lente. No.
  3. Le lumache col guscio sono più lente di quelle senza. No.
  4. Le lumache evitano piante coriacee o disgustose. No. Le trovi comodamente sugli steli pungenti delle zucchine, su un cavolfiore marcio, sul radicchio amaro (quello veramente amaro), sulla menta. La lavanda no, per dire, valle a capire.
  5. Mangiare lumache aiuta la gastrite. No.

Cose da sapere se vai a raccolta di lumache:

  1. Le mani si impiastricceranno di un liquame vischioso che non va via con l’acqua al primo lavaggio. Consiglio l’uso di uno straccio per toglierselo prima di lavarsi le mani
  2. Ci si sporca le mani
  3. Si incontrano animali che potrebbero crearti repulsione: cavallette, ragni, scarafaggi di varie dimensioni, rospi o rane, coccinelle, caprioli, cinghiali (gli ultimi dipendono anche un po’ da dove abiti)
  4. Può venire mal di schiena
  5. Ci si sporca le scarpe.
  6. Quando le piante sono molto piccole, le lumache possono rosicchiare il tronco principale, a volte anche sotto terra. Troie schifose.
  7. Ci si sporca i pantaloni. (Anche se so che sarai tentato, non pulirti le mani sui pantaloni: resisti fino alla fine)
  8. Bisogna andarci col buio. Di giorno non le trovi. (E col buio c’è buio: ti serve una luce)
  9. Se c’è umido ti bagnerai. (Questo vale un po’ per la vita in genere)
  10. Anche se costa fatica ammetterlo, le lumache hanno ragione.

Era giugno quando abbiamo scoperto le lumache. Per i 10 giorni successivi al tremendo incontro ho trascorso circa 2 ore ogni sera nell’orto. Più o meno dalle 23.30 alle 1.30. Le prime volte sembrava di lavorare per niente. La sera successiva erano ugualmente lì, in numero uguale se non superiore.
Disperazione totale. Stavo raggiungendo livelli di parossismo prossimi all’autismo. Per dire: una sera, di ritorno dalle prove coi Penguins – che avevamo fissato prima del solito poiché il giorno seguente dovevo svegliarmi alle 7.00 (che, per il sottoscritto, è un orario praticamente demenziale) – dicevo: quella sera sarà stata l’una circa, scarico la chitarra e mi avvicino alla porta finestra. La luna è forte, e illumina tutta la vallata. Orto compreso. Io lo guardo e lui mi guarda. Lasciamo perdere?
Niente, il selvatico che mi abita mi costringe ad andare. Indosso gli abiti da slumacamento e resto nell’orto fino alle 3.00, dandomi costantemente del cretino. Un’altra sera c’erano due amici che restavano la notte da noi. Accendiamo un fuoco (che è una delle cose belle di stare in montagna, che puoi accendere i fuochi anche d’estate) e ci sistemiamo. Dopo un po’ dico: Faccio un salto nell’orto. Son tornato da loro dopo non so quanto tempo; avevano finito una bottiglia di grappa di moscato e ridevano per cose che non capivo. Ho chiesto scusa e sono andato a letto sentendomi parecchio solo. “Pisciate sul fuoco prima di rientrare”, e loro giù a ridere. Che amarezza.

Ma, fortunatamente per la mia salute mentale, man mano che passavano i giorni, mi accorgevo che calavano. Dopo un paio di settimane ne recuperavo sì e no una trentina. Finché, complice anche il caldo torrido di metà estate, sono scomparse. Una sera ogni tanto capitavo di nuovo a fare un sopralluogo: quattro o cinque eroiche superstiti schiumavano su qualche foglia di lattuga, ma avevo vinto. E loro avevano perso.
In agosto ci andavo solo dopo i giorni di pioggia, sapendo che le maiale sarebbero arrivate.
C’è stato un ritorno di fiamma verso fine estate, che ho sedato in una manciata di sere.
Insomma, avevo vinto perdìo.

Ora siamo in ottobre. L’autunno le ha fatte tornare, ma le piante ormai sono grandi, e non hanno più paura. Qualche sera faccio una scappata, giusto per non perdere il ritmo.
Ed ecco che mi hanno permesso di scrivere questa roba.
L’inverno passerà. L’orto sarà lì, vedremo in che stato di salute. La prossima primavera forse ricomincerà la guerra. Un’amica ci ha detto che lei vuole preparare un macerato di lumache, fatto seguendo certe fasi lunari, lasciato riposare per qualche settimana, per poi distribuirlo sull’orto. Il principio è quello del similia similibus curantur, ovvero che il simile cura il simile. Potremmo anche provarci.
In una notte di luna piena. Completamente nudi. Delimiteremo un recinto con la cenere. Ci ricopriremo interamente la pelle di lumache. In testa un enorme conchiglia di gasteropode. Ai polsi i coni di rame come braccialetti rituali. Berremo la birra delle trappole alla birra. E senza mai smettere di mescolare il macerato in senso antiorario. Fino allo sfinimento. Fino al primo lucore dell’alba. Forse le lumache sono vampiri.

[gazebopenguins]

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Danni collaterali

di Roberta Ragona “tostoini”

China nera su parete bianca. Danni collaterali della lavorazione di un disegnino, live from Villamuffa. Si fa presto a dire “Accettate la sfiga”.

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Io con la sfiga ci vivo benissimo

di Sba

Io con la sfiga ci vivo benissimo, fin da quando sono nato. A quanto pare è la mia figura che funge da calamita, non sono io che sono sfigato. Sono praticamente circondato da gente che con la sfiga ci ha fatto le nozze, al punto che a volte mi chiedo se sono io a portare sfiga. Fin da quando sono nato.

La gente che è nata con me, nello stesso periodo, era tutta nella stanza dove sono nato io, o nei paraggi, non so bene. Uno che è nato il mio stesso giorno, nello stesso ospedale, nella stessa stanza, è venuto a scuola con me per anni, ed era uno veramente sfigato. Non era cresciuto molto, era piccolino, e tutti lo sfottevano perché era piccolino, e sfigato. Alle figurine riusciva a perdere anche contro di me, che ero una sega. Lui, sfigato, piccolino, perdeva anche contro di me. Era così sfigato che nessuno voleva giocare a figurine con lui, e allora si trovava a giocare con me, e perdeva, sfigato.

Un altro che è nato qualche giorno prima di me adesso vive a trenta metri da casa mia. Non è piccolino, e a dirla tutta non è nemmeno tanto sfigato, ha una bella casa, una bella moglie, un bell’idraulico. Sarà che ha passato veramente pochi istanti con me, ma non è poi così sfigato. Certo, i capelli che sembrano stuccati da un gessino della Val Camonica non gli rendono l’aspetto così piacevole, ma questo non credo che sia solo sfiga, deve essere anche questione di parrucchiere, o di lacca, o di idraulico.

Ce n’è ancora uno, nato una settimana prima di me, che era anche nello stesso ospedale, nella stessa stanza, nello stesso periodo. Lui non so dire bene se è sfigato o no, ma non lo vedo mai con delle ragazze e allora penso che sia sfigato, o anche un tantino omosessuale. Che non è essere sfigati, l’essere omosessuali, è credo più una questione di culo, ecco. Lui è sfigato a giorni alterni, tanto per capirci. Un giorno aveva parcheggiato la macchina nuova – beh, nuova, aveva un mesetto – in strada, e quella sera qualche buontempone voleva fare uno scherzo a un vicino di casa, e ci ha incendiato la macchina, al vicino di casa, solo che forse non sapeva bene quale era la macchina del vicino di casa e allora ha incendiato quella del mio amico. Quando sono arrivati i pompieri c’era solo più la marmitta, poi uno dice la sfiga.

Anche mia mamma è stata presa dalla sfiga che mi circonda, e quando dovevo nascere è ovvio che oltre alla sfiga a circondarmi era anche e soprattutto lei, mia mamma, nel vero senso della parola. Le avevano detto che ero in ritardo e che sarei nato grosso, sui cinque chili, e lei era un tantino preoccupata, al punto che scriveva lettere alla famiglia dicendo “o si sono sbagliati loro o mi sono sbagliata io, ma questo qui non ne vuole sapere di uscire”. Mentre chiacchierava con le mamme di quelli che sono nati prima o durante, quelli che ho detto sopra, era preoccupata che loro uscivano e io stavo lì dentro al calduccio. Mio padre lavorava sessantadue ore al giorno perché a casa ne aveva già due, di cosi che mangiavano, e io sarei stato il terzo, e da quanto ero grosso aveva già deciso di uccidere il vitello grasso. Mia mamma era più pacata, anche se ansiosa, e lo rincuorava dicendogli che comunque per i primi tempi, come per gli altri due, ci avrebbe pensato lei a sfamarmi. E appena dopo nato le dissero subito che non aveva latte, e che io avrei dovuto passare i migliori anni della mia vita senza il contatto con le mammelle. Che poi ‘sta cosa delle mammelle me la porto ancora adesso, mi viene da metterci la faccia dentro ogni volta che le vedo, alle mammelle, vatti a sapere perché. Sfigato anch’io, niente mammelle, mi son dato alla birra fin dall’infanzia.

Quando giocavo con mia sorella, da bambino, si faceva sempre male lei, poverina. Gara con la bici, una spanna di pelle abrasa. Gara a salire sulla betulla, si rompevano i rami dalla sua parte. C’era l’influenza, la beccava sempre lei. A Natale le regalavano la Barbie, e lei detestava quella bambolozza bionda abbagasciata, e allora la prendevo io, la spogliavo e mettevo la faccia in mezzo alle tette, chissà mai perché. Un giorno volevamo fare come maicbongiorno e facevamo i quiz, solo che per fare i quiz bisognava avere il cartellone con il nome, e lei ne scrisse uno per me, che io non sapevo scrivere, e ci scrisse Carlo Puttana, immagino perché non avesse idea di cosa volesse dire Carlo. Poi arrivò mia madre e sorrise, a me, e a lei le mollò una chiantozza che le rimasero le dita istoriate sulla guancia per due giorni. Ci vollero ancora un paio d’anni per capire che aveva buoni motivi per tenermi alla larga.

Alle elementari dopo la scuola uscivo sempre di casa a far danni in giro per il quartiere, insieme al mio amico Luca. Lui non era mica sfigato, di suo, ma appena arrivavo io, tempo due o tre ore, gli capitava qualcosa di spiacevole. Andavamo a spaccare pignatte nelle case in costruzione, e i muratori beccavano lui e lo portavano a casa da suo padre che gli faceva dei culi che si sentiva urlare fin nelle campagne. Giocavamo nei prati, e le api pungevano solo lui. Gara in bici, trentatré centimetri di abrasioni per volta. I rami dei gelsi si rompevano sempre e solo dalla sua parte. Far le scalette con i chiodi del sette, sapessi le martellate che si dava sulle dita, solo lui, sfigato. Sua mamma aveva i capelli neri, suo papà aveva i capelli neri, lui aveva i capelli rossi e le lentiggini, e questo da bambino non significava sfiga, ma crescendo mi aveva fatto venire qualche sospetto. A volte prendevamo in prestito il carretto di suo padre, e andavamo in giro lui sopra e io dietro a spingere, correndo a piene balle per strade sterrate. A volte era lui a spingere e io sopra, e non succedeva niente, ma quando era lui sopra e io a spingere era sicuro che un sasso o una buca lo avrebbero fatto ribaltare. Quando è stato più grandicello ha finalmente risolto i suoi problemi, perché i miei mi avevano rinchiuso in un collegio.

A scuola, alle medie, avevo cambiato posto, al collegio, non ero più al paese, e questo avrebbe potuto farmi passare quell’aura da menagramo, che non lo sapevo mica ancora di averla a quel tempo, l’aura da menagramo, lo sto analizzando adesso. Conobbi un paio di compagni che venivano anche dal mio paese e feci amicizia. Dopo la scuola, in estate, finite le medie, ci vedevamo ogni tanto, e io cominciavo a trovare le ragazze, e ci piacevo alle ragazze, io, mentre loro erano sfigati e non avevano ancora baciato niente che fosse minimamente paragonabile a una forma di vita. Il mio amico Mario era proprio uno che sembrava attirare la sfiga su di sé, e sembrava che questo accadesse solo quando c’ero io. Se andavamo a fare un giro in motorino, lui forava sistematicamente. Se provava a elaborare il motore, grippava. Un giorno aveva finalmente trovato il modo di fare andare il suo Issimo più veloce del mio Califfo Giò, e tempo due giorni glielo avevano rubato. Allora era costretto a viaggiare sulla Vespa Primavera tre marce di suo padre, una casseruola di tale portata che sembra incredibile ancora adesso che possa essere esistita. Una volta la tirò fuori e io gli dissi Facciamo cambio, e lui prese il mio Califfo e io la sua Vespa, e andammo verso la strada della discarica, e non successe niente, anzi, la Vespa sembrava andare più del Califfo, e lui era contento, allora ci scambiammo di nuovo i motorini e quando ci salì sopra lui, tempo dieci metri, era forata.

Sarebbero ancora tanti gli esempi, ne dico solo più uno. Un giorno con dei colleghi di lavoro decidemmo di andare a fare un giro in bici, una cosa seria, fino a un rifugio in montagna. Quella mattina pioveva come dio la mandava, o il suo idraulico, non so bene, comunque pioveva e io passai a prendere uno dei miei colleghi col furgone, quello che ci hanno bruciato la macchina, come ho detto sopra, che non avevamo voglia di farci tutta la strada asfaltata in bici, e lui mi diceva Ma piove troppo, lasciamo perdere, e io gli dicevo Vedrai che arriviamo là e c’è il sole. E figurati, arrivati là c’era un sole caldo e il cielo sereno, e allora lui pensò che questa storia della sfiga era finita. Ci incamminammo, arrivammo in rifugio, arrivarono anche gli altri due colleghi più allenati e facemmo pranzo. A scendere, in rigoroso ordine cronologico, il collega A forò due volte, il collega B riuscì a incaprettarsi su dei sassi e forò tre volte in un tratto di appena trecento metri. Il collega venuto con me era praticamente sicuro di essere fuori pericolo quando in entrata di curva riuscì a fare una quindicina di metri sulle gengive. E bon, quei tre lì con me in bici non ci sono mai più voluti venire.

Dimenticavo, parlando di sfiga. Uno che era a scuola con me si è addirittura fatto prete.

[NYFT]

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Ecco fatto

Tutti i pezzi dei due volumi dell’ebook Cronache di una sorte annunciata sono ora sul blog, commentabili, ricercabili, linkabili, eccetera. Rimane qualche inedito da pubblicare e poi abbiamo finito. Grazie a tutti.

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La sfiga dello scrittore

di Vincenzo Prencipe “khenzo” (testo) e “Cozla” (illustrazione)

Ho scritto una cosa bellissima poi l’ha mangiata il mio cane.

[I love Quentin]

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